giovedì 23 aprile 2015

QUEL SABATO MATTINA

Quel sabato mattina di sei mesi fa…



Quel sabato mattina arrivai presto a casa sua e suonai il campanello. Lei sembrava che non avesse avuto mai alcun dubbio sula mia decisione. “Entra, è aperto” disse. Con un sorriso trionfante mi intimò: “sai quello che voglio, spogliati e mettiti in ginocchio davanti a me”. Il rito non era cambiato. Quello che era cambiato era la mia consapevolezza che da quel momento, e per i successivi sei mesi, non sarei più stato padrone della mia vita perché ogni decisione che mi avesse riguardato l’avrebbe presa lei.
Le regole che mi dettò non lasciarono alcuno spazio al dubbio su quello che mi aspettava. Sapevo che avrei sofferto, sapevo che forse mi sarei pentito, ma sapevo anche che osservare il viso trionfante della mia padrona rappresentava per me la più grande felicità che potevo provare.”
La regola base era molto semplice: “Non farai nulla se prima io non ti ho autorizzato”
Pensai che si trattava di un modo di dire tipico in una relazione D/s. Ma di lì a poco incominciai a capire che non era soltanto un modo di dire. Lei intendeva quella frase in modo letterale.
Infatti aggiunse: “Puoi respirare, perché è giusto che tu lo faccia, ma per il resto dai un taglio netto alle tue abitudini: mi chiederai permesso per qualunque cosa: come vestirti, cosa mangiare, quando riposarti, dove dormire, insomma tutto incluso anche per andare in bagno dovrai chiedermi il
permesso.” Ero ancora in ginocchio, nudo davanti a lei, che sentì un rumore dietro di me
C’era evidentemente qualcun altro in casa, ma non sapevo chi fosse. “Vedi” disse rivolgendosi alla persona sconosciuta alle mie spalle “ho deciso di prendere questa cagna al mio servizio per un po’ di tempo, cosa ne dici?”.
Senza aspettare risposta, si rivolse a me dicendomi: “tu dovrai ubbidire a me e alle mia amica come se fossi io stessa. Non ammetto alcuna mancanza di rispetto nei confronti di nessuna amica o amico che io debba ricevere in questa casa. Tu sarai sempre e dico sempre una cagna sottomessa in ogni situazione”. Da una parte volevo dire basta, non volevo più essere uno schiavo a queste condizioni. Una cosa è essere schiavi totali per uno o due giorni e un’altra era pensare di trascorre sei mesi, il periodo di tempo per cui avevo accettato di servirla, nella qualità di schiavo totale. Per di più sentendomi dire che sarei dovuto essere sottomesso a chiunque entrasse in quella casa, le sue parole erano “sarai sempre e dico sempre una cagna sottomessa in ogni situazione”. Trovavo quella frase inaccettabile. Ma per quanto volessi ribellarmi, non riuscivo a dire no. Anzi, nonostante il mio disappunto per quanto mi era stato detto, sentì crescere la mia eccitazione. Lei nel vedere la
mia eccitazione, si mise a ridere, commentando:”ma guarda che cagna che si eccita per così’ poco, sei proprio una troia.” Io mi vergognavo della mia eccitazione ma non potevo nasconderla in quanto ero in ginocchio nudo davanti a lei. Fu in quel momento che sentì arrivare una forte sberla sul viso.
Barcollai ma quasi contemporaneamente mi lascia scappare un timido “perché”. Lei con aria severa gridò: “non ti avevo detto che non puoi fare nulla senza il mio permesso?. Chi ti ha dato il permesso di eccitarti. Trovo questo tuo comportamento una grave mancanza di rispetto, ma ti passerà la voglia di disubbidire”Se rivolse alla sua amica che era ancora dietro di me per dirle di
procedere e senza che avesse ancora finito la frase sentì che la sua amica mi cingeva il collo con un collare attaccato ad un guinzaglio. Le due signore soddisfatte mi girarono intorno e ridacchiando commentarono tra di loro: “ecco, adesso si ricorderà di essere soltanto una cagna”, In  quel momento notai le fattezze femminili della sua amica, che tuttavia avevano un qualcosa di diverso:
era chiaramente una trav e il mio stupore lasciò presto il poto ad un disagio profondo. La padrona se ne accorse e ridacchiando, mi disse che era una sua amica e che benché uomo era superiore a me perché aveva dato spazio al suo lato femminile e che perciò l’avrei dovuta servire e ubbidire come se fosse stata lei stessa. Pur provando un forte senso di ribellione rimasi in silenzio.
Sentivo che la mia eccitazione cresceva per via delle parole della padrona, ma che allo stesso tempo tendeva a diminuire pensando alla  presenza di questa sua “amica” che io non gradivo. “In ogni caso” continuava lei “accorgendosi del mio disagio per non dire disappunto, “che ti piaccia o no, tu farai quello che voglio io”. Poi continuò:  “comunque non ti permetterò di eccitarti per il tuo piacere”. Sentì il guinzaglio che mi tirava in avanti e a quattro zampe fui costretto a seguire lei e la sua “amica” verso la stanza Iniziò così la mia vita da schiavo e nei mesi che seguirono imparai quali erano i miei compiti. La padrona e la sua “amica” non  lesinarono sforzi per farmi capire il mio ruolo. I miei compiti spaziavano dai lavori domestici alla cura della padrona. Servivo a tavola, servivo il caffè a letto alla padrona e alla sua amica o al suo amico quando quest’ ultimo trascorreva la notte con la padrona. La padrona si divertiva a vedermi umiliato e sottomesso dal suo amico,
così come da altre amiche che venivano a farle visita. Quando pulivo la casa dovevo farlo sempre in ginocchio. Lei diceva “sei una cagna, no?”. quando dovevo stare in piedi, oltre a dover chiedere il permesso, dovevo indossare le scarpe con tacco a spillo che mi aveva preso. Mi diceva: “vuoi stare in piedi, indossa le tue scarpe da troia, sei una troia,  no?” Io dovevo sempre rispondere di sì. Ormai non mi permettevo alcun segno di insofferenza né tanto meno di ribellione: avevo imparato ad  accettare il mio ruolo che poi era solo quello che in quel momento la padrona voleva che fosse.
Ormai ero diventato parte del arredo della casa. Avevo incominciato a non desiderare nulla di diverso per me. Sapevo che nel giro di un paio di mesi la padrona mi avrebbe liberato dal mio vincolo di schiavitù, ma arrivato a qual punto mi chiedevo se essere liberato era proprio quello che io desideravo.
L’ultima volta che l’avevo vista era stata quando mi aveva salutato dicendomi di non cercarla e che quando avesse voluto vedermi si sarebbe fatta viva lei.
C’ero rimasto un po’ male, ma sapevo che non avrei dovuto disubbidire.
Era passato più di un anno e io mi ero guardato bene dal cercarla. Sapevo che se l’avessi fatto dopo quello che mi aveva detto,  probabilmente, anzi sicuramente, avrebbe significato che non avrei mai più avuto l’opportunità di incontrarla Mi ero quasi dimenticato di quei tre giorni che avevo trascorso con lei, anzi avevo in realtà cercato di rimuovere dalla mia memoria il ricordo di quello che era successo in quella casa. Per lungo tempo, il solo pensiero di quello che avevo fatto, anche se mi dicevo che ero stato obbligato a farlo, mi disgustava.
Sentivo che ero stato obbligato a farlo ma sapevo che in fin dei conti ero stato io a mettermi nelle condizioni di essere obbligato a fare quello che poi avevo fatto. E quindi mi chiedevo se in realtà non ero stato io a volere tutto quello.
Sapevo che la psicologia di uno schiavo è molto complicata e io non facevo eccezione. Mi auto analizzavo e mi auto assolvevo dei miei eventuali sensi di colpa, anche se in realtà mi rimaneva un certo disagio dentro. Avevo vissuto in quei tre giorni di un anno prima un’esperienza che mi aveva reso consapevole soltanto di una cosa, e cioè che una volta ceduto il potere alla padrona, davvero non si ha diritto di tirarsi indietro. Certo, puoi cedere il potere per un’ora, un giorno, tre (come avevo fatto io in quell’occasione), oppure per un anno o per tutta la vita. Ma la mia convinzione rimaneva quella: se sei schiavo, sei schiavo e basta. La padrona fa la padrona e perciò fa con te quello che le pare e non ha bisogno di chiederti il permesso, perché altrimenti tu non saresti lo schiavo e lei non sarebbe la padrona. Sareste soltanto due persone che si divertono a interpretare dei ruoli, mentre in quel momento, avevo imparato, tu e lei siete davvero quello che dite di essere cioè una padrona con tutti i diritti e uno schiavo senza alcun diritto, anche se  è giusto che abbia un limite temporale perché tranne pochissimi casi non si può pensare ad un rapporto indefinito di schiavitù “assoluta” come la padrona aveva preteso che fosse quella mia esperienza di tre giorni di oltre un anno prima.
Mi cullavo in questi pensieri dopo che avevo ricevuto la sua chiamata. La padrona mi aveva detto che mi voleva vedere. Io ero cascato in confusione, perché in quel periodo avevo avuto altre esperienze in quanto ormai ritenevo che la padrona non era più interessata a me e pertanto ritenevo che non fosse neanche più la mia padrona.
Eppure quella telefonata mi aveva fatto rivivere le emozioni di un tempo e mi ero sentito in dovere (chissà perché mai) di rispondere subito: “sì Signora”.
Avevo detto di sì, e sapevo che sarei andato all’appuntamento che mi aveva fissato ma deciso a dirle che non era il caso di rivivere  quell’esperienza di un anno prima.
Sono trascorsi altri quattro mesi da quella telefonata e nonostante la mia ferma decisione di dire “no, grazie”, sono qui in ginocchio a casa della padrona. Sono nudo è sono in attesa che la padrona rientri a casa, apra la porta dell’appartamento e ferma sulla soglia aspetti, come mi ha ordinato di fare sempre che torna a casa, di baciarle i piedi in segno di sottomissione e benvenuto.
Quando l’avevo incontrata quattro mesi fa, l’avevo salutata rispettosamente baciandole la mano e dopo alcuni convenevoli in cui era prevalsa una totale parità tra me e lei, avevo incominciato a notare che il suo atteggiamento nei miei confronti si era in qualche modo irrigidito. Lo trovavo assurdo visto che non ritenevo esistesse più un rapporto di dominazione e  sottomissione  tra lei
e me, eppure più lei si irrigidiva nella sua veste autoritaria, più io sentivo venire meno le mie certezze. Lei si era accorta di tutto ciò e incominciava a divertirsi nel mettermi a disagio.
Con tono molto di circostanza mi ero sentito dire che lei aveva deciso di prendermi al suo servizio per un periodo limitato, ma comunque sufficientemente lungo per rendere più proficuo il tempo che mi avrebbe dedicato nel’addestrarmi. Non capivo cosa aveva appena detto. Pensavo. ma si rende conto che io sono un uomo libero? si rende conto che non c’è più un rapporto D/s tra noi due?. Mentre continuavo a pensare queste cose lei mi diede improvvisamente uno schiaffo sul viso. Uno schiaffo che mi fece barcollare e che ritenevo del tutto fuori luogo. Ma io non dissi niente. Dalla mia bocca uscì soltanto un timido “mi scusi Signora, perché questo schiaffo?” Non solo le parole appena pronunciate, ma anche il tono mi erano uscite diverse da come avevo pensato che avrei reagito in una situazione simile. Da quel momento capì che stavo perdendo la partita e che la signora stava riprendendo il controllo su di me. Lei aggiunse: “questo fine settimana presentati da me e da quel momento inizierà il tuo periodo di schiavitù, che durerà sei mesi interi durante i quali non sarai altro che uno schiavo assoluto. Per sei mesi rimarrai al mio servizio, a casa mia. Ovviamente sei libero di accettare o meno: ma questa è l’unica libertà che avrai per tutti i sei mesi se deciderai di presentarti. Naturalmente se non ti presenterai io mi dimenticherò di te.
Io sapevo che era una cosa sbagliata, che non avrei dovuto presentarmi a casa sua. Eppure nei giorni che ci separavano dal fine settimana in cui mi sarei dovuto presentare continuavo a lottare con i miei sentimenti, perché in fondo in fondo mi dicevo che quello che mi era stato proposto era stata una delle mie fantasie più ricorrenti e quando mai mi sarebbe capitata un’altra possibilità come quella. Prima di lasciarci, la padrona aveva puntualizzato che il significato di schiavitù assoluta voleva dire proprio quello e che del resto avevo già provato durante quei tre giorni che avevo vissuto un anno prima. Da una parte volevo fuggire proprio perché durane quei tre giorni la padrona mi aveva costretto a fare cose che non avrei mai pensato di fare.
L’umiliazione che avevo provato a seguito di quella continua degradazione mi feriva ancora.
Ma allo stesso tempo sapevo che proprio quel potere che la padrona aveva esercitato su di me era proprio ciò che continuava ad attrarmi.  Sapevo che ala fine mi sarei presentato da lei.

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