CAPITOLO VI
Oggi la Padrona è rimasta in casa,
dilettandosi tra telefonate con le amiche, internet, facebook, senza dover
pensare a nulla perché il suo servo sguattero si occupa di ogni cosa. Ho lavato
i vetri di tutta la casa, passato l’aspirapolvere, lavato il pavimento della
cucina, rifatto il suo letto, igienizzato il bagno, preparato il pranzo. Per
Lei non sono praticamente esistito, solo una volta, a metà mattinata mi ha
chiamato perché le portassi un caffè, poi non mi ha degnato di uno sguardo.
Verso le 16 mi ha ordinato di pulirle gli stivali e l’ho fatto con vera,
autentica adorazione per le sue calzature. Ho capito che non cenerà a casa e
infatti nel tardo pomeriggio ha iniziato a prepararsi, senza chiedere il mio
aiuto. Si è mossa tra bagno cucina e la sua camera e io ho potuto solo
ammirarla con la coda dell’occhio.
E’ così bella Lady Martina, non è più giovane, ma è una donna splendida,
altera, superba, imponente. Adoro la sua presenza orgogliosa, il suo profumo,
la sua presenza magnetica che emana superiorità assoluta. Servirla è un onore
enorme ma anche un vero piacere, perché il solo pensiero che sono ammesso alla
sua presenza mi esalta.
Ho finito i miei compiti e attendo eventuali ordini nell’angolo dell’ingresso,
prostrato con la fronte ben adesa al pavimento. Non mi ha detto di prepararmi
nulla per cena, temo mi attenderà un ennesimo digiuno che comunque non potrà
farmi che bene, visto che sono in sovrappeso e in queste settimane la dieta cui
mi ha sottoposto mi ha fatto già perdere qualche chilo.
La sento in bagno, dove resta con la porta aperta, come se io non ci fossi e in
effetti cosa sono? Un servo, uno sguattero totalmente ignorato, trascurato come
un oggetto. La sento liberarsi la vescica senza tirare poi l’acqua, certamente
toccherà a me pulire alla perfezione mentre lei sarà fuori con qualche amica,
ma il mio pensiero è interrotto da un suo comando imperioso: ”Vacca…vieni
qui!”.
Mi muovo a 4 zampe come un cane sino a raggiungerla, accanto alla tazza del WC
dove mi attende. Non faccio in tempo a tornare a poggiare il viso a terra che
Lady Martina me lo solleva brutalmente strattonandomi per i capelli e
obbligandomi ad incrociare il suo sguardo spietato. Mi ride in faccia facendomi
tremare poi mi sogghigna:” Io esco, non vorrei tu zoccola ti annoiassi qui
da sola e così ho pensato a qualcosa anche per te… sono buona vero?”. Così
dicendo, sempre tenendomi per i capelli, mi guida con la testa sopra la tazza e
ve la infila dentro abbassando subito dopo il coperchio sulla nuca.
Ridendo mi
prende i polsi, li fa passare dietro il basamento di ceramica e li blocca
legandoli insieme con una specie di fascetta fermacavi in plastica numerata. E’
molto attenta alla sicurezza e questo mi da la massima fiducia in lei. Se sono
solo in casa o se non è vicina a me non usa le manette da cui non potrei
liberarmi ma queste strisce che potrei rompere facilmente in caso di bisogno.
E’ chiaro che se lo facessi senza un vero reale motivo la punizione sarebbe
terribile, ma so che se accadesse qualcosa o non mi sentissi bene potrei
slegarmi in un attimo.
Così bloccato la sento muoversi ancora per casa, poi, dopo qualche minuto,
tutte le luci vengono spente e l’ultimo rumore che mi arriva è quello della
porta di casa che Lady Martina chiude dietro di se uscendo. E sono solo.
Solo, al buio, legato ad una tazza del WC, con la testa infilata all’interno a
sfiorare la sua urina mescolata all’acqua sul fondo. E’ accaduto tutto così in
fretta e solo adesso mi rendo conto dell’incubo che sto vivendo. Non vedo
nulla, immerso nella totale oscurità e nel silenzio che mi opprimono. E’ una
umiliazione che mi sconvolge; penso ai miei amici, ai miei colleghi, ai miei
figli, a cosa direbbero nel vedermi vivere questa degradazione. Il tempo
trascorre ma non posso averne una misura in quel nulla che mi avvolge, scandito
solo dal dolore alle ginocchia e alla schiena che inizia a farsi sentire dopo
questo immobilismo scomodo cui sono costretto. Cerco sollievo spostando il peso
ora su una gamba ora sull’altra, mentre anche il mio olfatto sembra essersi atrofizzato
e non avverto quasi più l’acre odore ammoniacale che mi nauseava all’inizio.
Non me ne accorgo nemmeno ma inizio a piangere. Tutto questo è troppo, troppo.
Perché non sono in un cinema, o in un ristorante con gli amici o a casa a
gustarmi una birra e una serie TV? Perché accetto tutto questo? Perché mi sono
ridotto in questo stato? Cosa c’è di sbagliato nella mia mente che mi porta a
distruggermi così? Domande che mi pulsano senza sosta in testa e mi portano
mille volte a pensare di liberarmi e di dire basta ad un qualcosa di inumano a
cui mi sono autocondannato. Poi lentamente scivolo quasi una sorta di limbo,
una incoscienza da cui mi scuote, dopo un tempo indefinito un rumore.
E’ l’uscio di casa che si apre, è il suono dei passi della Padrona che rientra
e torna ad animare l’alloggio, accendendo qualche luce e muovendosi tra le
stanze ma senza entrare dove sono prigioniero. Non voglio pensare che abbia
intenzione di lasciarmi qui tutta la notte ed è una paura che mi accompagna per
diversi minuti in cui ancora una volta non esisto. Solo dopo momenti che mi
paiono un secolo sento aprirsi la porta del bagno e i suoi passi avvicinarsi a
me.
Mi libera con uno strattone i polsi, solleva il coperchio e mi prende per i
capelli per alzarmi il viso. Mi sento frastornato, sconvolto da ciò che mi ha
fatto provare e il mio sguardo spento e apatico non può che confermarglielo. Ma
lei risponde al mio sconcerto con una risata cattiva e mostrandomi un sacchetto
che tiene stretto in mano. “Povera serva sciatta, hai trascorso una
piacevole serata?” mi deride “Avrai fame, ma la Padrona ha pensato anche
a te, non sono gentile?”. Con queste parole fa dondolare la bustina che ha
in mano davanti ai miei occhi e poi la rovescia dentro la tazza del WC.
Ne
escono una decina di bordi smangiati della pizza che certo ha gustato con le
sue amiche.
Osservo quasi incredulo quella sbobba stomachevole sul fondo, ma non oso
nemmeno alzare lo sguardo mentre la sua voce tagliente mi sprona:”Su scrofa,
buon appetito…”. Allungo una mano e prendo un primo pezzo di quell’impasto
che una volta faceva parte di una succulenta pizza e ora gronda acqua e orina
e, trattenendo un rigurgito, lo porto alla bocca e inizio a masticarlo e ad
inghiottirlo. Ripeto quel gesto disgustoso ancora e ancora, mentre Lady Martina
mi apostrofa duramente “Su, su…vuoi mica farmi star qui tutta la notte?”.
In dieci minuti la mia cena è consumata come completamente consunto è il mio
animo, prostrato totalmente da quella sordida vergogna che mi fa scoppiare il
cuore. “Sparisci ora troia…” sono le parole del suo saluto, accompagnato
da un calcio violento sui glutei che mi sbatte quasi lungo disteso a terra. Mi
rialzo a fatica in ginocchio, mi volgo un attimo verso di lei per un ultimo
inchino e poi quasi scappo verso la mia camera dove mi addormento piangendo.
Per la prima volta questa sera mi avvinghia la paura di non farcela.