La mia $i$$yna
Dopo un'incredibile quantità di tempo e dedizione al lavoro, mi riuscì
di ottenere un premio in denaro, anche piuttosto corposo. L'occasione fu
perfetta per invitarla a pranzo, dopo tante rinunce nel poterla incontrare.
Andammo a pranzo in un locale in centro in cui sapevo si mangiasse bene il
pesce, per quanto non ne mangiassi io. C'era anche bel tempo considerata la
stagione, per cui fu una giornata straordinariamente piacevole.
Sulla strada del ritorno passammo dentro una viuzza in cui Lei sapeva
esserci un negozio di abbigliamento, tipicamente più indicato a taglie forti e
decisamente dalle fattezze più equivoche. All'interno una commessa ci diede il
benvenuto, La conosceva già per cui fu più una rimpatriata che un ingresso in
un negozio. Vi voltaste verso di me e la frase mi attraversò il cuore come una
spada incandescente.
- Siamo qui per vestire lei. Che hai di bello?
La ragazza sorrise intensamente mentre io di botto prendevo fuoco in
viso, fino alle orecchie. Iniziammo dall'intimo, e speravo che il nervoso della
vergogna finisse lì. Nero e in misto nero e raso, il completo intimo di
reggiseno e culotte fu corredato da un paio di calze a rete seguito a ruota da
un corsetto in pelle, aderente e con lacci reggicalze. Lo stringeste quanto
basta da farmi respirare a fatica, ma ciò non sembrò mettere in allerta il
vostro impegno. A questo seguirono un paio di stivali alti fin poco sopra al
ginocchio, lucidi, neri e con tacco a spillo. Starci in piedi non era facile, e
il momento non mancò di essere seguito dal farmi andare avanti e indietro per
il negozio. Un paio di guanti a rete neri seguirono ancora, per completare il
tutto con una parrucca rossa a caschetto. Il tutto, infine, coperto con un
giacchetto in PVC lucido e rosso, che arrivava si e no a metà coscia. Non mi
ero accorta che fuori fosse già diventato buio, la macchina fuori dalla vetrina
si intravedeva appena, e soprattutto cercavo di rimanere quanto più lontano
possibile dalla vetrina.
Fu quando tornaste con una pochette di make-up che capii che la cosa
non fosse finita lì. Il fondo tinta, il pennello che andava sugli zigomi,
l'ombretto sugli occhi e il rossetto si facevano sentire ogni singolo istante
che venissero applicati. E dopo un'interminabile momento di attenzioni durante
i quali le guance probabilmente scottavano al tatto, arrivò uno specchio a
rivelare le tinte scure e il rossetto fuscia acceso che fossero stati scelti
per quell'opera d'arte.
- Bellissima! - ammise la Sua Amica del negozio - quasi da metterla in
vetrina!
- Vero, è proprio bella! - si soffermò un attimo a pensare -
Facciamole un paio di foto! Puoi usarle sul tuo sito, no?
- Ma dici davvero? - la Sua Amica non sembrava crederci
- Ma certo!
- Grazie! Vado a prendere la macchina fotografica!
Mentre la Sua Amica si allontanava un attimo per prendere la macchina
fotografica, Lei si girò verso di me e sorridendo con gli occhi che sprizzavano
luce mi chiese: “Problemi?”. Negai, incapace di proferire parola, mentre le
ginocchia tremavano amplificate dallo stare sui tacchi a spillo.
La Sua Amica tornò, e iniziò un reportage fotografico, interrotto solo
un paio di volte da clienti che entravano al negozio e che potevo sentire dalla
zona del camerino in cui mi chiudevo a cercare di alleviare l'agitazione. Dopo
un tempo che non ho saputo quantificare, il reportage fotografico ebbe fine, e
immaginai che quell'ansia fosse - per certi versi - finalmente finita.
Pagai l'importo degli indumenti, confidando di potermi girare verso il
camerino e spogliarmi, ma contrariamente alla mia speranza, Lei si avvicinò
alla porta.
- Andiamo?
Ero totalmente paralizzata... le palpebre sbattevano pesanti di
mascara mentre il cuore batteva così forte che sembrava voler esplodermi in
petto. Lei ripetè le Sue parole, mentre la Sua amica osservava la scena tra
divertimento e curiosità. Alla fine, vedendo che la mia muta supplica non
avesse alcun effetto, mossi qualche tremante passo in avanti, verso la porta.
Salutai con voce tremendamente agitata e uscii dalla porta precedendo Lei sulla
strada. La macchina era lì di fronte, tre passi - forse quattro. Ma l'aria
della sera - si erano fatte le nove - mi fece quasi svenire.
Attraversai la strada senza guardarmi attorno, sperando che non ci
fosse nessuno - sbagliavo - e senza che nessuno mi vedesse. E mi sbagliai di
nuovo, vedendo con la coda dell'occhio dei passanti fissarmi e commentare. Lei
salì in macchina, ma non mancò di “dimenticarsi” di aprire la mia portiera,
facendomi rimanere lì a tremare e pregare di finire due metri sotto terra in
quel preciso istante. Alla fine riuscii a salire e sedermi, tremante,
annaspante, praticamente in apnea. Lei rise e mi toccò la mano su cui era
comparso, durante non ricordo quale istante, uno smalto fucsia.
- Ti piacciono i tuoi nuovi vestiti, piccola? Ai passanti sembrerebbe
di si! - e rise di gusto mentre cercavo di sprofondare nel sedile e scomparire.
Partimmo per fare un giro, appena fuori dal centro iniziai a sentire
un po' di conforto e rilassamento. Arrivammo in una strada lunga di una zona
industriale: era così lunga che non vedevo dove finisse, ma almeno era
completamente deserta. Si accostò in corrispondenza di un cancello e mi guardò.
- E ora, visto che hai lavorato tanto per avere questo completino,
scendi.
Credo di essere morta, ma resuscitata da una scarica elettrica.
- S... Signora?
- Scendi. Voglio vederti battere il marciapiede, puttana!
- M.. ma... - non riuscivo a parlare mentre formulavo una supplica per
chiederLe di non farmi scendere
- Ho detto scendi. Ti faccio una foto e poi andiamo!
Deglutii nervosamente, cercando la forza di fare ciò che mi ha
chiesto, e così slacciai la cintura - S... si Signora...
Scesi sull'asfalto mentre le gambe tremavano in maniera
incontrollabile. Altro piede sull'asfalto, e mi alzai in piedi. Sentii sbattere
la portiera e i giri del motore aumentare mentre la macchina si allontanava. Le
mani si incrociarono sul ventre e mi venne l'istinto di correre a nascondermi,
ma non c'era luogo per farlo. Le luci dei freni si accesero, La vidi scendere
dalla macchina. Mi fece cenno di camminare verso di Lei, e lentamente iniziai a
farlo, tremando, quasi incespicando sui tacchi altissimi e a spillo. Sentivo
l'aria della sera in ogni parte del corpo, non c'era un posto che fosse coperto
bene, se non per il corpetto che stringeva e mi rendeva difficile respirare.
La distanza sembrava interminabile, forse cento metri. Ad una decina
di metri mi fece fermare, vidi il telefono in mano e compresi che stesse
facendo la foto di cui accennò.
- Ora io vado ancora avanti, e se non vuoi rimanere qui o tornare a
casa a piedi, mi raggiungi. E spera che non ti abbordi nessuno!
Ridendo risalì in macchina, La vidi allontanarsi. Iniziai a camminare,
le braccia conserte sul petto mentre mi veniva da piangere per la paura e la
vergogna. Il tutto peggiorò quando La vedi sparire dietro l'angolo. Non si era
fermata all'incrocio, ma era andata avanti. La strada era illuminata dai
lampioni, a destra e sinistra complessi industriali e null'altro. Solo io, e
per di più vestita come una lucciola. Continuai a camminare, forse per cinque o
sei minuti. Dietro di me sentii un rumore. Una macchina che si avvicinava, dopo
secondi che stavolta sembravano essere troppo veloci, vidi i fari avvicinarsi.
La sentii rallentare dietro di me, il cuore stava veramente per cedere, non ce
la facevo più. Non so nemmeno cosa mi facesse continuare a camminare, ma mi
rifiutavo di voltarmi per guardare.
- Sali puttana!
Era la Sua voce. Mi sentivo come se stessi per farmi la pipì addosso
dall'agitazione e dalla paura, e salii in macchina con il viso fisso davanti a
me. Mi diede un bacio sulla guancia.
- Sei stata bravissima, piccola!
In quell'istante le lacrime cedettero e grondarono lungo le guance.
Gli occhi bruciavano da impazzire, mentre continuavo a piangere. La macchina
ripartì, il mondo era diventato un insieme di luci soffuse e distorte dalle
lacrime.
Salimmo a casa Sua, mi permise di sedermi sul divano. Lo si faceva, al
di là della mia posizione di Sua proprietà, parlavamo spesso come amiche. Del
resto il sentimento che provavo per Lei andava anche oltre il semplice
sentimento di appartenenza. Mi fece acquietare, mi parlò di come apparissi e di
come avessi imparato a camminare sui tacchi. Si divertì nel raccontarlo mentre
io non riuscivo a riacquistare la mia dignità. La serata giungeva al termine,
sognavo dentro di me una bella doccia e provavo un immenso bisogno di tornare
nei panni di quella... cioè... “quello” che avrebbe affrontato nuove sfide sul
lavoro la settimana successiva. Mentre facevo queste riflessioni notai che
tornava in soggiorno: indossava il Suo strap-on.
- Beh visto che ho abbordato una puttana, tanto vale sbatterla. Datti
da fare troia.
E mentre il cuore riprendeva a premere contro il corpetto cercando di
battere più forte, mi misi in ginocchio, per baciare e adorare il Suo fallo,
prima che prendesse, nuovamente, possesso di me.
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